martedì 31 marzo 2009
"El viaje de Teo": Festival del cinema africano, d' Asia e America Latina
Dopo aver ballato la “danza zouk”…e aver raccolto un po’ di informazioni su ristoranti e locali a Milano, in stile africano, che spero di vedere presto… e recensire, mi sono informata sul programma dei film del festival!
Devo dire di aver avuto un po’ di difficoltà a “interpretare” il sito e il volantino, ma la cosa mi interessava sia perché adoro conoscere le altre culture, soprattutto quella africana, sia perché avevo già visto alcuni cortometraggi al “Milano film festival” ed era stato divertente.
Così mercoledì sera, io e una mia amica (sempre quella del concerto degli Asian Dub Foundation :P) decidiamo di andare allo spazio Oberdan per assistere alla proiezione di un cortometraggio proveniente dalle isole Comorre e di un lungometraggio messicano.
All’ ingresso ci distribuiscono un foglietto sul quale, al termine della serata, siamo invitati a esprimere la nostra preferenza sul lungometraggio, che poi avrebbe partecipato insieme agli altri al concorso e alla premiazione.
La conduttrice della serata ci presenta il primo cortometraggio “La residence Ylan Ylang”che costituisce la prima produzione cinematografica proveniente dalle Isole Comorre.
La trama è molto lineare, ma faccio fatica a seguire i dialoghi perché da dove mi trovo non riesco a leggere bene i sottotitoli. Le immagini sono molto belle poiché rappresentano paesaggi quasi incontaminati e meravigliosi;il contenuto della pellicola, al contrario, è piuttosto noioso, più simile alla struttura di un documentario sulla vita del villaggio che a una vera trama.
Dopo una breve discussione con la regista del film si passa alla seconda proiezione e cambio anche posto, perché anche questo lungometraggio (proveniente dal Messico) è in lingua originale ma sottotitolato in italiano.
“El Viaje de Teo” racconta dell’immigrazione e dell’emigrazione sociale viste dagli occhi di un bambino: Teo ha nove anni e vive con lo zio in un villaggio messicano; quando il padre esce dal carcere, lo va a cercare per portarlo con sé negli Stati Uniti, passando illegalmente la frontiera.
Padre e figlio iniziano un lungo, tormentato viaggio fino alla separazione forzata.
Dal confine messicano Teo farà di tutto per ritrovare il padre…e al termine del viaggio avrà compiuto anche un percorso personale di crescita.
Anche se per quest’anno il festival a Milano è terminato i film verranno riproposti su tutto il territorio italiano toccando altre città tra cui Catania, Trieste, Gorizia, Reggio Emilia, Forlì, Lecco, Roma.
Vi invito a sostenere queste iniziative che costituiscono un’occasione di incontro e conoscenza di temi, linguaggi e nuove cinematografie mettendo in evidenza le potenzialità creative dei tre continenti.
“Grazie a una visione dell'Africa e del mondo proposta da autori africani, il Festival propone un'alternativa concreta alla cultura e all'informazione corrente dei mass-media”.
Vi consiglio alcuni link, come quello dell’ associazione C.O.E. http://www.coeweb.org/ ,
Centro Orientamento Educativo che ha contribuito all’organizzazione del festival , testimoniando l’attenzione e la promozione culturale verso i paesi del sud del mondo;
e http://www.festivalcinemaafricano.org/ , sito in cui registrandovi alla “mailing list” potete rimanere aggiornati sui prossimi eventi!
giovedì 26 marzo 2009
mercoledì 25 marzo 2009
“Fortapàsc”: la storia di Giancarlo Siani raccontata nel film diretto da Marco Risi con Libero de Rienzo
[ Un film di Marco Risi. Con Libero de Rienzo, Valentina Lodovini, Michele Riondino, Massimiliano Gallo, Ernesto Mahieux. Drammatico, durata 108 min. - Italia 2008. - 01 Distribution data uscita 27/03/2009. ]
Martedì 24 Marzo è stata proiettata al cinema Anteo l’anteprima del film “Fortapàsc” di Marco Risi, che racconta la storia del giornalista Giancarlo Siani.
L’avviso sul sito - http://www.spaziocinema.info/ - prometteva anche in un secondo momento un incontro con il regista, il protagonista Libero de Rienzo e il produttore Angelo Barbagallo. Sui giornali e in vari siti il film era presentato come “Cronaca degli ultimi giorni di un giovane giornalista freddato dalla camorra”. Martedì pomeriggio ci siamo dunque dirette all’Anteo aspettandoci una storia di camorra, e quindi dal contenuto angosciante e doloroso.
Ciò che ci ha colpito fin dalla prima scena (il protagonista che si tuffa in mare con gli amici) è che Giancarlo Siani non è dipinto come un martire né come un santo, ma come un ragazzo carico di tutta la leggerezza e la spensieratezza che caratterizza questa età. Tale leggerezza pervade tutto il film nonostante la drammaticità della storia. Nel 1985 Giancarlo Siani viene ucciso con dieci colpi di pistola. Aveva 26 anni. Faceva il giornalista, o meglio era praticante, abusivo, come amava definirsi. Lavorava al Mattino, prima da Torre Annunziata e poi da Napoli. Era un ragazzo allegro che amava la vita e il suo lavoro e cercava di farlo bene. Aveva il difetto di informarsi, di verificare le notizie, di indagare sui fatti. È stato l’unico giornalista ucciso dalla camorra. Il film ci porta negli ultimi quattro mesi della sua vita, precisamente nella sua ultima estate quando, dal Vomero, dove abitava, tutti i giorni scendeva all’inferno di Torre Annunziata, cittadina “assediata” (da qui il titolo western in pronuncia napoletana “fortapàsc”), regno del boss Valentino Gionta. Giancarlo si muove per Torre Annunziata sulla sua Citroën Méhari, vero e proprio manifesto di anticonformismo che lo collocava, inequivocabilmente, in una posizione politica senza compromessi. Tutto, in quel periodo, ruotava intorno agli interessi per la ricostruzione del dopo terremoto e Giancarlo vedeva. E capiva. Lo vediamo muoversi fra camorristi, politicanti corrotti, magistrati pavidi, e carabinieri impotenti mentre “perfino l’acqua diventa fango”.
Al termine del film, mentre le luci si riaccendevano, nei nostri occhi era ancora impresso l’ultimo sguardo di Giancarlo prima di morire. Sorpreso, umile e allo stesso tempo quasi sfrontato per la sua sincerità.
Subito dopo la proiezione del film si è svolto l’incontro con il regista Marco Risi, l’attore protagonista Libero De Rienzo e il produttore per Rai Cinema Angelo Barbagallo, i quali sono stati intervistati da Alessandra De Luca.
Assistere a quest’incontro ci ha permesso di venire a conoscenza di alcuni dettagli sulla genesi del film ed inoltre sono emersi interessantissimi spunti di riflessione. Il regista Marco Risi, figlio del grande maestro Dino Risi, a cui è stata dedicata la pellicola, ha spiegato come il film avesse tratto spunto dal libro “L’abusivo” scritto da Anotonio Franchini, coetaneo e concittadino di Siani, il quale ne raccontava il caso. La sceneggiatura del film risale a 5 anni fa, quando il progetto si è arenato perché l’attore protagonista aveva abbandonato le riprese. Un anno e mezzo fa il film è stato poi ripreso in considerazione ed è stato scelto un nuovo protagonista per interpretare il giovane giornalista: Libero De Rienzo, già attore nel film di Marco Ponti “Santa Maradona”, in cui era protagonista insieme a Stefano Accorsi, e regista di “Sangue - La morte non esiste” nel 2005. L’attore non ha voluto incontrare i parenti di Giancarlo prima delle riprese né venire a conoscenza dei dettagli privati della sua vita, in quanto temeva che altrimenti sarebbe stato emotivamente troppo coinvolto e non avrebbe in questo modo potuto restituire gli aspetti di leggerezza della storia, i quali hanno un ruolo importante nel film; dunque, per la costruzione del personaggio l'attore ha preferito affidarsi all’istinto. Sorprendentemente il Siani che De Rienzo ha portato sullo schermo assomiglia moltissimo nei modi di fare e di muoversi allo stesso Siani, nonostante l’attore fosse molto diverso da lui, con grande sorpresa e commozione della famiglia di Siani.
Paolo Siani, fratello maggiore di Giancarlo, ha sostenuto fortemente il progetto e ha collaborato sia alla scrittura che alla realizzazione del film mettendo a disposizione tutto ciò che conserva del fratello Giancarlo, in modo che Risi potesse in questo modo comprendere a fondo il suo personaggio. A rendere la pellicola ancor più rappresentativa della storia di Siani è stata la presenza sul set di alcuni parenti di vittime della camorra che si sono resi disponibili ed hanno recitato come comparse. Inoltre la macchina che viene utilizzata nel film è la vera macchina all’interno della quale Siani è stato ucciso, la sua Citroën Méhari verde brillante, uscita da un deposito giudiziario poco prima dell’inizio delle riprese del film.
L’obiettivo di Risi è stato quello di mantenere un tono leggero nel film nonostante l’orrore della vicenda raccontata, in quanto convinto che il contenuto di dolore non dovesse “schiacciare” l’opera cinematografica: in questo modo, invece che portare sullo schermo solo la storia di un martire civile, è stato possibile raccontare la storia di Giancarlo Siani mostrandone tutte le sfaccettature,
in particolar modo sottolineando come il giornalista fosse inconsapevole del fatto che stava andando incontro alla morte: era solo un ragazzo che voleva fare bene il proprio lavoro. Di conseguenza la sceneggiatura del film risulta leggera, non mancano momenti nei quali si ride e la fotografia a tratti luminosa vuole rappresentare la gioia e i colori degli anni ’80; in questo modo gli spettatori possono uscire dalla proiezione con un sentimento positivo: il messaggio del film è un messaggio di speranza.
Questo particolare taglio del film lo distingue dall’acclamato “Gomorra” di Matteo Garrone con cui condivide l’argomento affrontato il quale, nonostante sia un film straordinario, non lascia spazio ad un messaggio positivo e viene definito da Risi un film “disperante”.
In conclusione non è mancata una riflessione sul cinema di impegno civile in Italia: produttore e regista si trovano d’accordo nell’appoggiare una critica nei confronti della produzione cinematografica in Italia dato che la legge vigente prevede che i film siano finanziati esclusivamente dalle televisioni; quest'ultime impongono una censura sui progetti che trattano argomenti delicati e lasciano poco spazio ai film che non hanno il consenso del grande pubblico; di conseguenza, se non c’è il supporto delle televisioni non si possono produrre film se non low budget.
Poter sentir parlare artisti del calibro di Risi, De Rienzo e Barbagallo, il quale ha lavorato per anni con Nanni Moretti, è stato molto emozionante e ci ha portato a riflettere riguardo al cinema di qualità che in Italia non trova lo spazio che meriterebbe.
Per le forti emozioni che suscita e per il messaggio di speranza che racchiude, vi consigliamo calorosamente di andare a vedere “Fortapàsc”.
Buona visione!
Qui potete vedere il trailer del film:
Cinema africano, d'Asia e America Latina
Da lunedì 23 marzo a domenica 29, Milano ospita il 19° Festival del cinema africano, il più importante appuntamento in Italia dedicato alla produzione cinematografica del sud del mondo.
Il programma di eventi è molto ricco e prevede due sezioni “competitive” - Concorsi Finestre sul mondo - aperte ai lungometraggi di fiction e ai documentari di Africa, Asia e America Latina e tre concorsi riservati esclusivamente all’Africa: Concorso per il Miglior Film Africano e i Concorsi per i Migliori Cortometraggi di Fiction e Documentari.
Sarà possibile assistere alle proiezioni presso: Auditorium San Fedele, spazio Oberdan Cinema Gnomo e cinema Palestrina, mentre la Casa del Pane, a Porta Venezia propone altri eventi speciali e collaterali come danze afrocaraibiche, buffet etnici e atelier di decorazione di borse..
Io ieri sera ho ballato la “danza zouk” , vi consiglio di dare un occhiata anche al programma , con orari e luoghi delle proiezioni dei film!!!
Il programma completo è sul sito ufficiale del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina insieme a molte altre informazioni utili sull’evento.
lunedì 23 marzo 2009
“Massive not Passive!”, concerto degli Asian Dub Foundation al Leoncavallo
Girovagando sul web alla ricerca di concerti e eventi interessanti a Milano scopro che giovedì sera al Leoncavallo gli Asian Dub Foundation presenteranno il moro nuovo album “Punkara” e che il prezzo del biglietto è anche molto accessibile …7 euro!!
L’ unico “problema” per una studentessa fuori-sede come me… a Milano è…”come raggiungere Via Watteau senza dover tornare per forza in taxi o impazzire per chiamare un radio-bus?”
Io e la mia coinquilina decidiamo di avventurarci in bici e, dopo esserci studiate bene il percorso più veloce da piazza Udine a Via Watteau, scopriamo con piacere di aver raggiunto la nostra destinazione in 30min!
Gli Asian Dub Foundation sono un gruppo britannico di musica elettronica formato da componenti di origine asiatica.
Sono diventati famosi a livello internazionale grazie alla loro capacità di tenere insieme sonorità eterogenee, da quelle elettroniche e reggae, ai ritmi tradizionali indiani, oltre che per il loro impegno politico e sociale: la musica del gruppo, grazie alla sua ricchezza strumentale ed espressiva, esce dalla forma più tradizionale del Dub, sottogenere del reggae sviluppatosi in Jamaica negli anni '6o e poi evolutosi nei '90 con le contaminazioni di hip hop, dancehall e drumm'n'bass, a cui pure il gruppo si richiama.
Il nucleo originario del gruppo si è formato a Londra, nel 1993 in occasione di una serie di corsi diretti all’insegnamento dei concetti base della musica ad un gruppo di ragazzi asiatici. Il gruppo, sin dalle prime apparizioni, ha scelto di trattare argomenti politici e sociali rilevanti. I primi concerti avvennero in occasione di manifestazioni in Inghilterra a favore di varie cause, contro il razzismo e a supporto delle comunità di immigrati nel Regno Unito.
Nel 1998 i componenti del gruppo fondano un’associazione non-profit, la Asian Dub Foundation education (abbreviata in ADFed), la quale ha il compito di coordinare le attività educative da offrire in zone disagiate di Londra. Nei workshop tenuti nell’East End sono stati "scoperti" anche Aktarvator e MC Spex, che sono entrati successivamente nel gruppo. Altre attività comprendono l’attivazione di corsi in altre zone del mondo: in particolare, la band stessa ha preso parte alle attività tenutesi in Brasile nel 2001 e a Cuba nel 2002.
I testi delle canzoni sono all’insegna di una denuncia contro il razzismo dei bianchi nei confronti delle minoranze, un invito, supportato da slogan d’assalto (Massive not Passive!), ad unirsi facendo valere i propri diritti. C’è quindi un senso di orgogliosa appartenenza, ma nessuna concessione a una visione celestiale della madrepatria India.
Il concerto inizia a mezzanotte e per un’ora e venti tutti ballano e si scatenano a ritmo di sonorità che, grazie alle percussioni, ti portano in giro per il mondo, dall’Africa all’India.
Il messaggio degli Asian Dub Foundation è quello di essere se stessi fino in fondo, di comunicare con la gente e di trasmettere gioia, ritmo, energia, "rispettando il ciclo naturale delle cose".
Per restare aggiornati sulle prossime date dei concerti potete visitare il loro myspace:
www.myspace.com/asiandubfoundationuk
domenica 22 marzo 2009
"La figura nera aspetta il bianco", mostra di Mario Giacomelli allo Spazioforma
Non so un bel niente di fotografia.
E tuttavia, complice la straordinaria e indomabile intraprendenza femminile, la mattina di sabato 21 marzo mi ritrovo allo Spazioforma, a gironzolare come un’anima in pena tra i potenti chiaroscuri di Mario Giacomelli, il grande maestro della fotografia italiana. Se lo scrivono a lettere cubitali al principio della mostra, che diamine, sarà vero.
Infatti, la mia accompagnatrice (ciao Mari) e tutti gli altri spettatori della mostra procedono lentamente tra i quadretti nerastri, si soffermano a lungo, a volte parlottano tra loro indicando quel punto o quell’altro dell’immagine che hanno davanti: origlio i discorsi di un paio di giovanotti vestiti alla moda e non capisco una sola parola. Linguaggio tecnico.
Nelle movenze di tutti appare evidente un rispetto che rasenta la reverenza e negli sguardi concentrati, tra l’interessato e il sinceramente stupito, colgo qualcosa di simile al segreto.
Probabilmente questo mi accade perché io, dal canto mio, non so bene cosa guardare, dove guardarlo né come guardarlo.
E quanto guardarlo, soprattutto: alcuni spettatori se ne stanno immobili come stoccafissi davanti alla medesima immagine per il tempo a me sufficiente per percorrere la mostra nella sua interezza (e le fotografie esposte sono quasi duecento!): chissà che cosa ci vedono, mi chiedo, o meglio che cosa riescono a vederci: all’inizio l’esperienza artistica di questa mattina mi crea qualche difficoltà perché, come accade con tutti i grandi maestri della storia, al primo assaggio ogni loro performance ci appare in un’aura vagamente elitaria: o ne capisci o tanto vale che non ci provi neanche, brutto ignorante che non sei altro.
Questa sensazione è però un elemento necessario all’incontro con la bellezza; in verità, è la conferma dell’importanza di ciò a cui si sta davanti. Non è bene fidarsi di quei prodotti, artistici o meno, che al primo assaggio donano già una vacua sensazione di benessere: ciò che è grande, all’inizio, deve sempre fare un po’ di paura.
L’arte, la sua esperienza estetica, non richiede cultura o preparazione: richiede umiltà e coraggio.
Armandomi dunque delle suddette qualità mi accingo alla contemplazione delle fotografie: con un sospiro intimorito e incerto mi concentro sulla prima.
Si chiama L’approdo: raffigura una nave nera che conquista la costa sullo sfondo di un bianchissimo e confuso mare schiumoso. A sinistra la spiaggia grigia.
Bè, è bella.
La nota mi informa che non si tratta semplicemente della prima immagine scelta per la rappresentazione, bensì della prima fotografia scattata da Giacomelli in assoluto. Per essere precisi la nota biografica dice: “Mario Giacomelli, nato a Senigallia nel 1925, inizia a lavorare a 13 anni in una tipografia. Nel 1952 compra una macchina fotografica e scatta la sua prima immagine, “L’approdo”.
Sticazzi.
Voglio dire: mettiamo, per assurdo, che venga anche a me il ghiribizzo di cimentarmi nella fotografia: vado in un negozio specializzato e compro la Canon, o quello che è, ultimo modello.
Vado a casa e decido di scattare la mia prima foto.
Intanto io non vivo a Senigallia, ma nel cuore della metropoli milanese, e dalla mia finestra non si vede nessun bianchissimo e confuso mare schiumoso, né tantomeno navi nere che approdano da qualche parte.
Ma non è questo il punto.
Io, probabilmente, per fare pratica mi metterei a fare orrendi ritratti di parenti sorridenti o scatterei una foto dal balcone di casa mia, magari al tramonto per avere più atmosfera (e poi chi ha voglia di alzarsi all’alba), contando di produrre qualcosa di minimamente suggestivo più per fortuna che per impegno.
Questo signore scatta la sua prima foto e il risultato è una specie di quadro che avrebbe fatto impazzire gli impressionisti.
Si vede che certa gente per certe cose ci nasce.
Appurato che non devo essere un esperto per godermi la bellezza delle opere, e sinceramente rincuorato dalla scoperta, inizio a gironzolare per la mostra e ogni tanto fingo di capirne, imitando i comportamenti degli espertoni che mi circondano.
Le risorse cognitive che mi restano da questo compito le utilizzo nel sincero tentativo di instaurare, nella mia ignoranza, un dialogo con l’artista attraverso le sue opere.
Alcune hanno una straordinaria potenza drammatica e narrativa.
In particolare, sono poche le fotografie che costituiscono un’opera unica: la maggior parte è racchiusa all’interno di cicli e percorsi che occupano intere pareti.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi è composta da diversi ritratti, in pose particolari e forse studiate ad arte, dei pazienti e del personale di un ospizio: il dramma della vecchiaia e della caducità emerge con inesorabile chiarezza dalle profonde rughe dei volti e dei corpi, e le loro pose rimandano a un movimento lento e stanco verso una meta che non può essere nominata, ma che si affaccia inevitabilmente alla mente dello spettatore umano. Il titolo pavesiano ci interpella senza pietà e ci fa sentire vicini alle persone ritratte. Non è altro che l’antico argomento del “memento mori”.
Umiltà e coraggio. Andiamo avanti.
Il discorso di Un uomo, una donna, un amore è un vero e proprio racconto per immagini, senza parole eppure pieno di erotismo e di pensiero: seguendo le immagini serialmente disposte, si arriva dalla contemplazione dell’intimità tra due amanti al loro addio causato dalla chiamata alle armi. Le ultime quattro fotografie, una sopra l’altra, mostrano i momenti del saluto: veri e propri fotogrammi, che imitano la tecnica del cinema… o ne anticipano l’intuizione? Persino una lunga storia d’amore può essere narrata con diversi scatti, lontani nel tempo l’uno dall’altro, ma di un addio, dell’ultimo minuto vissuto insieme all’amata, non può andare perduto un solo istante. L’arte dell’attimo e l’utopia del movimento. Parmenide versus Eraclito.
…sto andando fuori tema.
Mi colpiscono molto le immagini dei campi coltivati: sempre in bianco e nero, vengono ritratte dall’alto le righe perfette della semina e le disposizioni squadrate delle campagne.
Dopo un po’ vanno insieme gli occhi… detto così sembra una stupidaggine: in verità, accade qualcosa di magico per cui quelle figure simmetriche e dure, immortalate nelle innumerevoli sfumature possibili del grigio, iniziano ad assomigliare a qualcosa di unico nel loro genere: campi che non sono più campi, ma capolavori di disegno e geometria. Da questo imparo che la fotografia, pur ritraendo per antonomasia la realtà quale essa è, possiede una misteriosa capacità trasformativa: il fotografo non copia soltanto ma, cogliendo il momento e scegliendo il modo, crea qualcosa dal nulla non meno di qualunque pittore.
Altre ispirate serie di fotografie portano il nome di celebri poesie ( A Silvia, Ritorno); colpisce il gruppetto di immagini che porta il nome di Per poesie: scatti di oggetti quotidiani non sempre riconoscibili, fotografati e messi in attesa di essere associati a qualche verso poetico. Questa scelta fa nascere il sospetto che l’artista non si lasciasse semplicemente ispirare dalla poesia per poi trarne un’immagine, bensì riconoscesse nell’immagine, per lui giustamente primaria, i sentori e la bellezza delle opere dei poeti. Anche in questo caso la poesia è riconosciuta nell’immagine, ma si tratta del riconoscimento di qualcosa che ancora non si è trovato: queste immagini messe nel cassetto, catalogate “per poesie”, raccontano l’intuizione di una meraviglia non ancora espressa ma incredibilmente evidente, senza parole, senza concetti; è lo sconosciuto di Lagervist: o ancora, come quelle di Montale, anche le immagini di Giacomelli portano scritto un sicuro “più in là!”.
Ma l’immagine che più mi colpisce, per la quale bisogna tornare all’inizio della mostra, tra le prime opere, è Il misantropo.
La fotografia raffigura un uomo seduto su una sedia in un giardino brullo: è circondato da alberi morti e si copre il viso con lo scuro cappello. Alle sue spalle, compare una cornice vuota il cui bianco della tela illumina l’intera figura.
Questa fotografia mi piace un sacco.
Da una parte, mi sento chiamato in causa, ed è bello quando un’opera d’arte ci dice qualcosa che ci riguarda: è come se l’artista fosse riuscito, tramite il miracolo del suo talento, a conoscerci ancora prima che nascessimo e a produrre per noi un messaggio che attraversa il tempo.
L’opera mi riguarda perché, causa la mia personalità difficilmente trattabile, l’accusa di misantropia mi è stata rivolta un paio di volte ( a dire il vero, di più) e in certi casi sicuramente a ragione.
In un certo senso il misantropo è un tipo che mi piace.
Ci vuole una dose epocale di faccia tosta per essere uomo e avercela con gli uomini; è un paradosso che ha dell’eroico. Qualcuno direbbe che ha anche del profondamente stupido, ma questa è normalmente la reazione di tutte quelle persone che, avendo un bassissimo livello di autostima, non concepiscono che qualcuno possa volere sinceramente bene a se stesso e da questo tragga la sicurezza e la forza per giudicare gli altri. Che, nella stragrande maggioranza dei casi, se lo meritano.
Ma lo sguardo di Giacomelli è così splendidamente analitico da non lasciare spazio ad alcuna ingenuità, né a quella del misantropo né a quella dei suoi detrattori: la sua opera mostra lucidamente il lato oscuro della misantropia, vale a dire la solitudine e il rifiuto di comunicazione. E’ così che il vero misantropo, per evitare l’autodistruzione, deve scendere almeno occasionalmente dal suo piedistallo e ascoltare la ricchezza che ha sede negli altri: altrimenti, la sua pena sarà la vuotezza dell’animo, la povertà del pensiero… l’inesorabile inutilità della tela bianca di chi non ha nulla da dire, perché non ha nessuno con cui condividere.
Bè, che dire? Andate a vedere le opere di Giacomelli!
Come dite? Non capite niente di fotografia?
Mi dispiace, ma questa non è una scusa.
Oreste Urano si presenta
Oreste Urano è il nome di quattro universitari che studiano psicologia a Milano accomunati dall’interesse per l’arte in tutte le sue forme.
Nel titolo del suo blog Oreste Urano cita il maggior esponente del surrealismo poiché, così come Magritte rappresentava il reale non per interpretarlo ma per mostrarne il suo mistero indefinibile, egli recensisce per voi eventi culturali non per ergersi ad esperto ma per condividere con gli altri il suo amore per l’arte e la sua esperienza di incontro con essa.
Oreste Urano, quattro teste e una voce, vi guiderà alla scoperta di tutto ciò che di culturale c’è a Milano: arte, cinema, letteratura, musica.
L’obiettivo di Oreste è informarvi riguardo a tutte le meravigliose occasioni che Milano offre agli affamati di cultura come lui.
Perciò se cercate uno spunto per passare il vostro tempo libero, o volete scoprire alcuni dei più interessanti appuntamenti culturali a Milano…fidatevi di Oreste Urano!